Cosa l’ha attratta di questo progetto?
Tutto è iniziato quando ho conosciuto Eva Pattis che applicava la terapia della sabbia con gli yazidi, popolo vittima di un genocidio compiuto dall’Isis nel 2015 nel nord dell’Iraq. Un gruppo di donne yazide, rese schiave dalle milizie islamiche, è stato in seguito portato in Germania. Una delle terapie proposte per alleviare i loro traumi è stata quella di Eva che, proprio perché basata sul linguaggio non verbale, funziona bene in situazioni complesse come queste.
C’è un evento che l’ha colpita in particolare?
Ho ascoltato la ricostruzione di molti casi, parlato con i “testimoni silenziosi” che assistono, senza interferire, al gioco con la sabbia. Mi viene in mente una ragazzina vittima di abusi che posizionava le miniature con serpenti e ragni addosso, piccole bottiglie di liquore intorno e una bambina girata di spalle che non guardava la scena. Con questa creazione spontanea di immagini “raccontava” ciò che le era accaduto. Ho inoltre avuto modo di parlare con alcuni ucraini poiché Eva ha utilizzato la terapia già dall’inizio del conflitto in Donbass con i primi sfollati dal 2016 in avanti.
Che ruolo ha l’Alto Adige nel film sul piano geografico e narrativo?
La parte centrale del documentario ricostruisce il trauma personale di Eva, emerso durante la realizzazione del film. È la storia di sua madre che nel 1940 era fidanzata con un giovane, arruolato nella Wehrmacht e finito a combattere in Ucraina, con cui tenne un fitto carteggio. I due promettono di sposarsi ma la guerra li separa per sempre. Questa è l’origine del dolore con cui Eva deve confrontarsi per riuscire ad essere di aiuto agli altri. Le riprese si sono svolte a Bolzano (nei luoghi della città di cui stiamo ricercando corrispondenza in foto e filmati dagli archivi della Provincia), nella casa di famiglia di Eva, e sullo Sciliar. Nel capoluogo, poi, è venuta a parlare di traumi di guerra una psicoterapeuta ucraina che usa la terapia della sabbia – in Alto Adige è stato peraltro avviato un progetto di sandwork con i bambini ucraini profughi accolti sul territorio. Abbiamo infine conversato con terapeuti e volontari che da alcuni anni fanno questo tipo di terapia a Bolzano, seguito la preparazione delle sedute e filmato la supervisione con Eva da cui è emerso anche il lavoro difficile dei testimoni silenziosi che si fanno carico delle angosce delle persone coinvolte nella sandplay therapy.